MENU

...Home... ...C.S. Lewis... ...the Inklings... ...Bibliografia...

giovedì 8 aprile 2010

A viso scoperto

La storia comincia nella città di Glome, un piccolo centro di barbari alle periferie del mondo ellenistico, in un periodo di tempo collocabile approssimativamente tra il 399 a. C. (la morte di Socrate) e la nascita di Cristo.

La storia è raccontata in prima persona da Orual, la sorellastra di Psiche, che ricorda, ormai avanti negli anni, la tragica storia della sua famiglia.

Sono vecchia, ormai, e non ho più molto da temere dall’ira degli dèi: non ho marito né figli, nemmeno un amico, su cui potrebbero prendersi una rivalsa nei miei confronti. Quanto al mio corpo – questa smunta carcassa che ogni giorno deve essere lavata, nutrita, rivestita di abiti, diversi per ogni occasione – che lo uccidano pure, quando più li aggrada. La successione è assicurata: la corona passerà a mio nipote. […] Accuserò gli dèi, in particolare il dio che abita sulla Montagna Grigia. Intendo riferire tutto ciò che egli mi ha fatto, cominciando dall’inizio, come se stessi esponendo le mie ragioni contro di lui dinanzi a un giudice. Ma non c’è giudice tra dèi e uomini, e il dio della Montagna non mi risponderà, terrori e flagelli non bastano, come risposta.

Orual è la figlia maggiore di Trom, re di Glome, con una sorella minore di nome Redival. Il re, dopo la morte della regina, cerca disperatamente di avere un figlio maschio per la discendenza, e combina un matrimonio con la figlia del re della vicina Chapad. Intanto compra un schiavo greco, che egli chiama Volpe, perché istruisca le sue due figlie.

La giovane regina muore anch’ella dopo aver dato alla luce un’altra bambina: Psiche. Il re allora s’infuria contro tutti, inveisce contro la bruttezza di Orual, uccide uno schiavo e minaccia Volpe di mandarlo nelle miniere. Intanto Psiche cresce e tutti restano folgorati dalla sua straordinaria bellezza. La stessa Orual ne subisce un’incredibile infatuazione.

Redival invece, ragazza di più allegri costumi, non fa altro che disturbare l’armonia tra Orual, Psiche e Volpe. Intanto quell’anno il raccolto fu scarso ed in città scoppiò un’epidemia. Anche Volpe si ammala, ed Orual dovrà aiutare il re a gestire gli affari di stato nella stanza delle colonne. Psiche si prende cura di Volpe e lo guarisce, così in città si diffonde la convinzione che sia una dea che basta toccare per guarire. Il re teme un assalto, ma Psiche si concede per un incontro con i malati del popolo. Al suo ritorno una forte febbre la colpisce.

Psiche guarisce, ma ora il popolo, oppresso dalla fame, la ritiene non più una dea, ma una maledetta dagli dèi.

Giunge così alla reggia il sacerdote della dea Ungit, il quale espone dinanzi al re tutti i guai di Glome e per scongiurarli richiede di fare una grande offerta al figlio della dea, il dio della Montagna Grigia, una bestia spregevole recentemente avvistata sui monti. La vittima sacrificale, va portata sulla Montagna, legata ad un albero e lasciata lì perché il Dio si unisca a lei o perché Ungit si unisca a lui. Inizialmente il re teme di essere scelto lui come vittima, ma poi capisce che, in realtà, la vittima è Psiche. Sollevato dalla sua angoscia, inveisce violentemente contro Orual che gli chiede di salvare la sorella: egli invece acconsente al sacrificio della figlia.

Psiche è imprigionata nel palazzo, ma Bardia capo dell’esercito, a guardia della porta, consente che Orual entri a confortarla per qualche minuto, ella non trova altro che una Psiche ormai rassegnata al sacrificio imminente.

Psiche è portata sul monte e lasciata sola, incatenata ad un albero. Intanto Orual, ancora livida per i colpi del re, resta a palazzo affranta dal dolore. Giorni dopo chiede a Bardia di accompagnarla sulla Montagna per andare a seppellire Psiche. Giunta sul posto trova l’albero e le catene, ma non la sorella. Camminando più avanti, al di là del fiume essi vedono Psiche. La ragazza, riferisce alla sorella di stare benissimo, assistita da ancelle e col conforto di uno sposo che viene a trovarla solo di notte. Psiche dice di trovarsi davanti al suo palazzo, ma Orual non vede nulla se non la valle e così la crede pazza ed insiste perché torni a casa. Ma Psiche ha deciso di non tornare: ella è una sposa fedele adesso. Mentre beve al fiume, per un attimo, Orual vede il magnifico castello di Psiche, ma poco dopo esso scompare. Orual vorrebbe ora credere alla felicità della sorella, ma nonostante ciò torna a palazzo e racconta tutto a Volpe. Il greco precettore conclude che Psiche sia vittima di qualche furfante che si spaccia per il dio e così, piuttosto che saperla tra le braccia di uno sconosciuto, Orual decide di tornare sulla Montagna per uccidere Psiche e liberarla da questa vergognosa pazzia. Ma, appena giunta, Orual ferendosi gravemente un braccio le propone un patto di sangue: vedere il volto dello sposo accendendo una lampada mentre egli dorme. Psiche, portata alla disperazione, accetta, e di notte, dopo aver illuminato il volto di lui, si sente un grido altissimo e scoppia un tremenda tempesta. Il dio subito appare ad Orual, maledicendo il suo operato: ora Psiche vagherà in esilio, mentre lei, dice il dio, conoscerà cosa vuol dire essere Psiche.

Orual torna a palazzo e non dice ad alcuno dell’accaduto. Indossa un velo che le coprirà il volto per sempre e continua ad esercitarsi nell’arte della spada con Bardia. La sua paura per il re è scomparsa e intanto questi ed il sacerdote si ammalano e muoiono.

Orual riceve pressioni per diventare la regina di Glome, ma per farlo deve dare prova di poterla difendere. Così un giorno, Trunia le chiede aiuto contro il suo fratello Argan che gli ha usurpato il trono della vicina città di Phars. Orual sfida a duello Argan e lo uccide. Orual ora è la regina indiscussa di Glome, il nuovo sacerdote è il giovane Arnom e Redival sposa Trunia re di Phars.

In viaggio verso Essur, la regina Orual si inoltra nel bosco e trova un tempio greco dove si venera la statua di una dea chiamata Istra. Il sacerdote del tempio le racconta la storia della dea, la quale è tale e quale a quella di Psiche. Nella storia le sue due sorelle l’avevano rovinata perché erano gelose del suo palazzo e della sua felicità con il dio.

Ascoltata quella storia che la accusa di essere gelosa di Psiche, Orual torna a casa e, infuriata, scrive la sua accusa contro gli déi, ossia tutta la parte del libro che finora abbiamo letto. Conclude Orual:

Io dico che gli dèi si comportano molto ingiustamente con noi. Essi, infatti né se ne vanno (il che sarebbe la cosa migliore), lasciandoci soli a vivere la nostra breve esistenza, né ci si mostrano apertamente, per dirci quello che vogliono da noi. Perché anche quello sarebbe sopportabile. Invece, sanno solo accennare e aleggiare intorno a noi, venirci vicino con sogni e oracoli, o con una visione della veglia che svanisce appena intravista; restare muti come tombe quando noi li interroghiamo e insinuarsi di nuovo accanto a noi per sussurrarci all’orecchio parole che non comprendiamo, proprio quando più desideriamo liberarci di loro; mostrare a uno quello che tengono nascosto a un altro. Che cos’è tutto questo, se non giocare al gatto e al topo, a nascondino, un mero gioco di destrezza? Perché i luoghi sacri devono essere così bui? Perciò io affermo che non c’è nessuna creatura (rospo, scorpione o serpente) così nociva all’uomo come gli dèi. Ma […] essi non hanno una risposta.

Comincia così la seconda parte del libro in cui Orual è costretta a svolgere dei compiti che la obbligheranno a guardare a se stessa così come ella è.

Orual comincia ad apprendere cose che prima non riusciva a vedere. Comprende quella che doveva essere la solitudine di Redival quando lei si appartava con Psiche e Volpe.

Comprende la desolazione di Ansit, la moglie di Bardia, ormai a letto in agonia, per non aver mai potuto godere di un marito totalmente sottrattole da una regina troppo esigente.

Orual si rende conto di essere come Ungit: avida, piena di interessi, sfruttatrice di chi gli sta intorno. Una notte sogna suo padre che gli ordina di scavare una buca nella sala delle colonne e di sotto trova un’altra sala delle colonne e poi un’altra. Lì infine trova uno specchio, dove Orual non vede il suo volto, ma Ungit stessa.

Orual, allora, vuole uccidersi, ma il dio la ferma: è inutile scappare da Ungit, ella si trova anche nella terra dei morti.

In un altro sogno, Orual si trova improvvisamente in un tribunale e con in mano il testo della sua accusa contro gli déi che in quel momento sta pronunciando ancora e ancora:

“Vi è mai venuto in mente chi era quella ragazza? Era mia. Mia. Sapete cosa significa questa parola? Mia! Siete ladri, seduttori. Ecco il mio torto. Non vi accuserò (non ora) di essere bevitori di sangue e divoratori di uomini. Ho superato anche questo…” “Basta” comandò il giudice. Intorno a me si fece un silenzio assoluto. E ora per la prima volta sapevo quello che avevo fatto. […] Alla fine il giudice parlò. “Hai ricevuto soddisfazione?” “Sì” risposi. […]“ Il mio atto d’accusa era la risposta”.

Aver sentito se stessa che lanciava il suo atto di accusa fu per Orual lo stesso che ricevere una risposta. Volpe le diceva sempre che si parla sempre con troppa leggerezza del dire ciò che si pensa. Dire proprio ciò che si intende dire, in maniera completa: questa è la vera arte e la gioia della parole. Facile a dirsi, ma non lo è quando viene il momento di pronunciare quel discorso che da tempo avevamo dentro nell’anima:

Capii perché gli déi non ci parlano apertamente, né ci lasciano rispondere. Finché non ci verrà estorta quella parola, perché dovrebbero stare ad ascoltare le chiacchiere con le quali crediamo di esprimere il nostro pensiero? Come possono incontrarsi con noi faccia a faccia, finché non avremo un volto?

Orual ha adesso una nuova consapevolezza. Volpe le si avvicina e le mostra alcune visioni attraverso cui ella vede Psiche che deve svolgere i quattro compiti che Afrodite le ha imposto. Alla fine Psiche torna vittoriosa accanto alla sorella. Ora è il turno di Orual di essere giudicata dal dio e riflessa in un lago vede la propria immagine uguale a quella di Psiche: “anche tu sei Psiche” dice il dio. Orual adesso comprende:

Avevo terminato il mio primo libro con le parole: non hanno una risposta. Ora so, Signore, perché tu non dai risposte. Tu stesso sei la risposta. Davanti al tuo volto ogni domanda muore sulle labbra. Quale altra risposta sarebbe soddisfacente? Parole, soltanto parole; da far scendere in campo contro altre parole. A lungo ti ho odiato, a lungo ti ho temuto. Forse potrei…”

Il libro finisce qui, seguito da una nota del sacerdote Arnom che dice di aver salvato il manoscritto della regina Orual e di averlo custodito nel tempio.